La missione dei professionisti moderni (anche in mediazione)

Storicamente il professionista era un privilegiato: qualcuno che aveva potuto studiare e che poteva sopravvivere usando il cervello e non le braccia, stando in uno studio che era senz’altro più confortevole di un campo, di una barca o di una fabbrica.

La parola di avvocati, notai, architetti, medici o ingegneri era rispettata non solo per le loro conoscenze ma anche per la loro statura morale e per la stima sociale di cui godevano. Di solito la loro attività non era direttamente remunerata ed il professionista poteva permettersi il lusso di agire “pro bono”: non per guadagnare ma per svolgere una missione che giustificava il suo impegno.

Oggi i clienti si sentono “mezzi professionisti” solo perché hanno trovato quattro informazioni su un sito web o, peggio, su un social network in cui ognuno può pontificare.

D’altro canto in tanti oramai svolgono un lavoro di tipo intellettuale: ma in che senso sono professionisti?

In Italia c’è una crisi generalizzata di leadership a tutti i livelli e solo le imprese più illuminate possono vantarsi di averne la disponibilità per riflettere su quale sia la loro missione nella società: alcune adottano un bilancio sociale ed altre sono diventate benefit corporation o BCorp.

Le università da qualche anno hanno cominciato a parlare di “terza missione” e “public engagement” che a me sembrano espressioni assai vicine alla mission aziendale, ma quella vera, reale, che riflette i valori, non quella sbattuta sciattamente in bella vista nei siti web o nelle pubblicità solo per esigenze di marketing o di “immagine”.

E la missione del professionista chi la stabilisce?

Ultimamente mi chiedo spesso cosa spinge o, forse dovrei dire trascina, giù dal letto la mattina un professionista: la necessità di pagare affitti e bollette, di mantenere una famiglia, il dubbio di avere un ruolo nella società, il piacere ad impegnarsi in un compito difficile, la considerazione degli altri? C’è dell’altro o al contrario non c’è nulla, nel senso che non c’è una chiara consapevolezza?

Mi torna alla mente l’immagine di un anziano operatore ecologico, anche se nel mio cervello ultracinquantenne c’è l’etichetta di “spazzino” che non ha alcuna valenza negativa nel mio sistema di credenze: me lo ricordo come una bella persona, educata, sempre sorridente, che, con la scopa in mano, dispensava un cenno di saluto a chiunque conoscesse anche solo superficialmente mentre era impegnato nella sua missione che era quella che tutti noi gradiamo, ossia di avere un ambiente pulito in cui muoverci.

Fermiamoci un momento per riflettere su quale sia la missione nella nostra vita: potremmo scovarne una in ogni angolo, magari seppellita tra difficoltà vere o apparenti oppure dovremmo farci largo tra i germi della “scusite” gravissima malattia che colpisce il pensiero di quei tanti (ma tanti..) che non si rendono conto di guardare il proprio dito senza vedere la luna…

Un piccolo spunto lo voglio e lo devo dare: trovare una missione nella prossima procedura di mediazione in cui saremo coinvolti, come mediatori, avvocati, o tecnici. Per questo ho elaborato, grazie alle idee che stanno iniziando a girare nel nostro “gruppo di ricerca”, una piccola “Carta etica per una mediazione socialmente responsabile“. Da copiare e diffondere senza ritegno!